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Louise Gluk ha vinto il Nobel, ma il mondo ha ancora bisogno dei poeti?

L’Accademia di Svezia, lo scorso 6 ottobre, ha assegnato il premio Nobel per la letteratura a Louise Gluk, forse poco conosciuta da noi ma considerata una delle voci più autorevoli della letteratura americana contemporanea. Luise Gluk è una poetessa e, potenza del Nobel, almeno per qualche ora l’attenzione dei mezzi di informazione di tutto il mondo si è concentrata, come non accade spesso, su questo genere letterario. Questa notizia e i suoi effetti mediatici collaterali mi hanno suggerito un interrogativo. Questo nostro mondo così feroce, veloce e pragmatico, ha ancora bisogno della voce dei poeti. Ha ancora bisogno di poesia? Io penso di sì. Anzi sono convinto che ne abbia maledettamente bisogno un’epoca così inquieta e impaurita, che vive di emozioni virtuali e posticce e in cui la voce superficiale ed arrogante di chi schiuma rabbia e livore sui social sovrasta troppo spesso quella degli altri. I tempi superficiali che stiamo vivendo hanno urgente necessità della dolcezza di parole che accarezzano le corde più profonde della nostra anima, capaci di evocare, facendole riemergere, sensazioni altrimenti nascoste o taciute per pudore. Ed è giusto ricordare che la poesia non è un genere elitario e incomprensibile, riservato a pochi e può toccare il cuore di chiunque sia disposto a lasciarsi conquistare da essa. Ce lo hanno saputo raccontare due film, ai quali immagino molti di voi siano legati: “L’attimo fuggente”, interpretato, tra gli altri da quel genio vitale e malinconico di Robin William e, soprattutto e “Il postino”, testamento umano e artistico dal mai troppo compianto Massimo Troisi. In quel film è il poeta Neruda, interpretato da Philippe Noiret che ci dice: “Quando la spieghi, la poesia diventa banale. Meglio delle spiegazioni, è l’esperienza diretta delle emozioni che può spiegare la poesia ad un animo disposto a comprenderla”. Non c’è altro da aggiungere se non augurare a tutti voi una serata ricca di poesia.

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Il coraggio di Vanessa

Si può dire che ci ha messo la faccia, anzi tutto il corpo Vanessa Incontrada. Imperversa ormai da qualche giorno sui media e sul web la foto dell’attrice di origine spagnola apparsa senza veli sulla copertina di Vanity Fair, bella radiosa e incurante di mostrare le sue forme. “Nessuno mi può giudicare” è il titolo di copertina che accompagna la foto. La Incontrada sta combattendo da tempo un suo battaglia contro il body shaming. Per dirla in italiano: contro chi, soprattutto sul web, non rispetta e insulta quelle donne il cui fisico non risponde ai canoni di bellezza imperanti, aimè, imposti da media e pubblicità. Qualcuno obietterebbe che è facile a farsi, se sei una Vip e ti chiami, appunto, Vanessa Incontrada. Ma i testimonial servono a questo, quando si mettono al servizio di una giusta causa. Applausi allora a Vanessa per la sua battaglia contro il bullismo virtuale, ma anche per quella dose di autostima che riesce a trasmettere a quelle donne, e anche quegli uomini, che non riescono ad accettarsi per quello che sono. Quel “nessuno mi può giudicare”, lo dico anche per esperienza personale, a volte, dovremmo rivolgerlo innanzitutto a noi stessi. Siamo noi, spesso, più o meno inconsciamente a bullizzarci e ad essere i primi censori di noi stessi. Siamo noi, in alcuni casi, ad autolimitarci se scondizionati dal giudizio altrui che ci etichetta, ingiustamente, in una certa maniera e solo per il nostro aspetto fisico. Lo so, non è mai stato facile da far comprendere al mondo che il valore di una persona non si misura in base ai centimetri di adipe, all’altezza o a qualsiasi altra caratteristica del fisico. E’ una storia vecchia, una battaglia infinita e difficile ma ora sento di dire grazie Vanessa, per il tuo coraggio e per la tua sfrontata tenacia!

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Il museo della felicità

È stato inaugurato nei giorni scorsi a Copenaghen “The Happiness Museum”, il primo museo al mondo dedicato alla felicità. Apprendo sul web che questo museo prevede un percorso interattivo concentrato sulla storia della felicità, nelle sue varie sfaccettature e con contributi di diversa natura, anche di carattere scientifico. Ho pensato, leggendo questa notizia, che sarebbe bello se ognuno di noi costruisse, idealmente, un suo personale museo della felicità. Un luogo virtuale dove allestire, per cominciare, una galleria delle immagini dei volti delle persone più care e amate, dei luoghi dove si è stati bene e dove avremmo voluto che ogni istante si fosse fermato e dove saremmo voluti tornare con un’ipotetica macchina del tempo. Il nostro personale museo della felicità dovrebbe prevedere le registrazioni delle frasi, delle parole, anche sussurrate e segrete, che ci hanno emozionato o che hanno cambiato la nostra vita, rendendoci, appunto, felici. A questo mio pensiero fantasioso si è aggiunta la consapevolezza che il tempo non ritorna e che non vi è nulla di più inafferrabile, di indefinibile, di impalpabile. di incatalogabile, della felicità stessa. Raccontarvi di questa notizia è stato un pretesto per parlar appunto di felicità. Questa parola l’ho ripetuta tante volte, in questo mio breve contributo. È vero, ma è stato per me come recitare un mantra, contro i tempi poco felici che purtroppo viviamo.

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L’amore impossibile di Nigel l’uccello

La storia dolce e triste di Nigel ( sotto il link di fanpage.it) è scritta nel vento e sul mare, per raccontarci che l’amore è l’inganno più grande, ma è un’illusione che ci fa sperare e vivere, fregando anche la realtà più assurda.
Io immagino che Nigel abbia chiuso le ali e gli occhi per sempre, sperando fino all’ultimo momento in un gesto di amore della sua amata di cemento, e chissà, forse, prima della fine quel gesto è arrivato davvero, tanto sognato da essere finalmente reale.

 

https://scienze.fanpage.it/e-morto-nigel-l-uccello-piu-triste-e-solo-del-mondo-innamorato-di-una-femmina-di-cemento/