Archivio mensile:ottobre 2020

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Il Covid, Rodari e il cavaliere coraggioso che abbiamo nel cuore

Nulla sarà come prima!  Lo abbiamo detto a noi stessi, solennemente, nei mesi più duri del lockdown. Lo abbiamo giurato mentre insieme cantavamo dai balconi l’Inno di Mameli e Nessun dorma. Quando chiusi tra le mura domestiche pensavamo di aver riscoperto e riconquistato il cuore delle persone a noi vicine e facevamo grandi proclami pronti a prenderci carico dei destini del pianeta malato, come tanti novelli Greta Thunberg . Ma appena Il virus ha mollato la presa, purtroppo solo apparentemente, il vento caldo dell’estate e l’umano sentimento della rimozione hanno portato via ogni nostro buon proposito.  Diciamoci la verità il Covid ci ha fotografati impietosamente, nel bene e nel male, con i tutti i nostri pregi e i nostri difetti.  E ora che l’incubo si sta ripresentando, più dolorosa è la disillusione e grande è la confusione sotto il cielo.  Stiamo celebrando in questi giorni i cento anni dalla nascita di Gianni Rodari.   Ci vorrebbe davvero lui, ora, sotto questo cielo plumbeo, a farci riscoprire il nostro cuore bambino, capace di superare ogni avversità con la fantasia e, come nelle sue filastrocche, donare speranza al mondo che adesso ne ha maledettamente bisogno.   Di Rodari   dovremmo    recitare quei suoi versi che ci dicono che “In cuore abbiamo tutti un cavaliere pieno di coraggio, pronto a rimettersi sempre in viaggio”.  Come quel cavaliere allora sfidiamo la paura e ripartiamo sicuri di farcela perché possediamo la cosa più preziosa che esista: la nostra umanità. È proprio questo che Gianni Rodari ci ha insegnato con la sua vita e le sue opere.

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Salviamo i teatri, sono la nostra anima

I teatri sono posti speciali dove si esprime la cultura di un popolo ma anche luoghi vivi dove, in alcuni speciali frangenti della storia, di quello stesso popolo si costruiscono il futuro e la speranza. Vorrei ricordare, ad esempio, tre eventi che hanno contribuito a segnare l’uscita dell’Italia dalla tragedia della seconda guerra mondiale. Il 25 marzo 1945 Eduardo portò in scena per la prima volta, al Teatro San Carlo, Napoli Milionaria. La Guerra non era ancora finita ma Napoli si era già liberata dai nazisti con le eroiche e famose Quattro Giornate di Napoli. L’11 maggio 1946, alla Scala di Milano, il grande maestro Arturo Toscanini diresse il concerto con cui il teatro venne riaperto, dopo essere stato distrutto dai bombardamenti nel 1943. Sempre a Milano, il 14 maggio 1947, Giorgio Strehler, Paolo Grassi e sua moglie Nina Vinchi, fondarono il Piccolo Teatro di Milano, il primo teatro stabile italiano. Questa è la nostra storia, ma l’oggi, per i nostri teatri, ha le tinte fosche delle gravi limitazioni imposte dalla pandemia e delle conseguenti incertezze che vivono migliaia di famiglie di persone occupate in questo settore. Si, perché a chi improvvidamente dice che i teatri si possono chiudere, perché tanto non producono business, dobbiamo ricordare che tutto il comparto dello Spettacolo dal vivo, sviluppa un milione di posti di lavoro e un volume di 10 miliardi l’anno. Dico questo perché penso che ci vorrebbe, nell’attesa che tutto torni alla normalità, più passione popolare e, ovviamente, più attenzione da parte delle istituzioni per salvare i destini dei nostri teatri, dei luoghi di spettacolo, e di tutti coloro che vi lavorano. Quello stesso accaloramento che il dibattito pubblico, anzi quella che Pier Vittorio Tondelli definiva “la sublime arte del cazzeggio nazionale”, esercita in interminabili discussioni su partite di calcio rinviate e esami taroccati di famosi e strapagati calciatori. Insomma, non possiamo rinunciare ai nostri teatri, sarebbe una resa e significherebbe consegnare a questo maledetto virus la nostra cultura e la nostra anima. Tutti insieme non permettiamo che questo accada.

Foto di Andreas Glöckner da Pixabay

 

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Louise Gluk ha vinto il Nobel, ma il mondo ha ancora bisogno dei poeti?

L’Accademia di Svezia, lo scorso 6 ottobre, ha assegnato il premio Nobel per la letteratura a Louise Gluk, forse poco conosciuta da noi ma considerata una delle voci più autorevoli della letteratura americana contemporanea. Luise Gluk è una poetessa e, potenza del Nobel, almeno per qualche ora l’attenzione dei mezzi di informazione di tutto il mondo si è concentrata, come non accade spesso, su questo genere letterario. Questa notizia e i suoi effetti mediatici collaterali mi hanno suggerito un interrogativo. Questo nostro mondo così feroce, veloce e pragmatico, ha ancora bisogno della voce dei poeti. Ha ancora bisogno di poesia? Io penso di sì. Anzi sono convinto che ne abbia maledettamente bisogno un’epoca così inquieta e impaurita, che vive di emozioni virtuali e posticce e in cui la voce superficiale ed arrogante di chi schiuma rabbia e livore sui social sovrasta troppo spesso quella degli altri. I tempi superficiali che stiamo vivendo hanno urgente necessità della dolcezza di parole che accarezzano le corde più profonde della nostra anima, capaci di evocare, facendole riemergere, sensazioni altrimenti nascoste o taciute per pudore. Ed è giusto ricordare che la poesia non è un genere elitario e incomprensibile, riservato a pochi e può toccare il cuore di chiunque sia disposto a lasciarsi conquistare da essa. Ce lo hanno saputo raccontare due film, ai quali immagino molti di voi siano legati: “L’attimo fuggente”, interpretato, tra gli altri da quel genio vitale e malinconico di Robin William e, soprattutto e “Il postino”, testamento umano e artistico dal mai troppo compianto Massimo Troisi. In quel film è il poeta Neruda, interpretato da Philippe Noiret che ci dice: “Quando la spieghi, la poesia diventa banale. Meglio delle spiegazioni, è l’esperienza diretta delle emozioni che può spiegare la poesia ad un animo disposto a comprenderla”. Non c’è altro da aggiungere se non augurare a tutti voi una serata ricca di poesia.

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Il coraggio di Vanessa

Si può dire che ci ha messo la faccia, anzi tutto il corpo Vanessa Incontrada. Imperversa ormai da qualche giorno sui media e sul web la foto dell’attrice di origine spagnola apparsa senza veli sulla copertina di Vanity Fair, bella radiosa e incurante di mostrare le sue forme. “Nessuno mi può giudicare” è il titolo di copertina che accompagna la foto. La Incontrada sta combattendo da tempo un suo battaglia contro il body shaming. Per dirla in italiano: contro chi, soprattutto sul web, non rispetta e insulta quelle donne il cui fisico non risponde ai canoni di bellezza imperanti, aimè, imposti da media e pubblicità. Qualcuno obietterebbe che è facile a farsi, se sei una Vip e ti chiami, appunto, Vanessa Incontrada. Ma i testimonial servono a questo, quando si mettono al servizio di una giusta causa. Applausi allora a Vanessa per la sua battaglia contro il bullismo virtuale, ma anche per quella dose di autostima che riesce a trasmettere a quelle donne, e anche quegli uomini, che non riescono ad accettarsi per quello che sono. Quel “nessuno mi può giudicare”, lo dico anche per esperienza personale, a volte, dovremmo rivolgerlo innanzitutto a noi stessi. Siamo noi, spesso, più o meno inconsciamente a bullizzarci e ad essere i primi censori di noi stessi. Siamo noi, in alcuni casi, ad autolimitarci se scondizionati dal giudizio altrui che ci etichetta, ingiustamente, in una certa maniera e solo per il nostro aspetto fisico. Lo so, non è mai stato facile da far comprendere al mondo che il valore di una persona non si misura in base ai centimetri di adipe, all’altezza o a qualsiasi altra caratteristica del fisico. E’ una storia vecchia, una battaglia infinita e difficile ma ora sento di dire grazie Vanessa, per il tuo coraggio e per la tua sfrontata tenacia!

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Il museo della felicità

È stato inaugurato nei giorni scorsi a Copenaghen “The Happiness Museum”, il primo museo al mondo dedicato alla felicità. Apprendo sul web che questo museo prevede un percorso interattivo concentrato sulla storia della felicità, nelle sue varie sfaccettature e con contributi di diversa natura, anche di carattere scientifico. Ho pensato, leggendo questa notizia, che sarebbe bello se ognuno di noi costruisse, idealmente, un suo personale museo della felicità. Un luogo virtuale dove allestire, per cominciare, una galleria delle immagini dei volti delle persone più care e amate, dei luoghi dove si è stati bene e dove avremmo voluto che ogni istante si fosse fermato e dove saremmo voluti tornare con un’ipotetica macchina del tempo. Il nostro personale museo della felicità dovrebbe prevedere le registrazioni delle frasi, delle parole, anche sussurrate e segrete, che ci hanno emozionato o che hanno cambiato la nostra vita, rendendoci, appunto, felici. A questo mio pensiero fantasioso si è aggiunta la consapevolezza che il tempo non ritorna e che non vi è nulla di più inafferrabile, di indefinibile, di impalpabile. di incatalogabile, della felicità stessa. Raccontarvi di questa notizia è stato un pretesto per parlar appunto di felicità. Questa parola l’ho ripetuta tante volte, in questo mio breve contributo. È vero, ma è stato per me come recitare un mantra, contro i tempi poco felici che purtroppo viviamo.